Mio padre era uno che per lavoro viaggiava molto e qualche volta mi è capitato di dover andare con lui. Sì, per dovere, mai per mia scelta. Il perché? Perché non ero uno stinco di santo, anzi, ero ribelle fino nel midollo, tant'è che il soprannome affibbiatomi era "sciagura" e portandomi con lui (secondo il suo pensiero, naturalmente) poteva essere un modo per farmi rinsavire.
Peccato però che questo ragionamento non sortisse mai l'effetto desiderato, ma l'esatto contrario. Perciò mi ritrovavo in una macchina con lui e davanti a me migliaia di chilometri da percorrere.
Fossero stati solo i chilometri da sopportare niente era, ma, io, lui e le sue interminabili paternali, erano davvero una rottura di palle colossale!
Avevo imparato, già a quel tempo, a sorridere e annuire e a chiudere i padiglioni auricolari, aprendoli solo ogni tanto per non cadere delle nuvole in caso di domanda improvvisa.
I viaggi erano lunghi, molto e si viaggiava in tutte le stagioni. Una delle poche cose che mi affascinavano di mio padre era la sua sicurezza al volante. Pioggia, neve, grandine, nebbia, nubi, sole, giorno e notte, lui era sempre nella corsia di sorpasso. E la cosa sorprendente è che io non avevo paura. Mai. Guidava benissimo ed era attentissimo. L'unico con cui in macchina riuscivo a dormire.
Ricordo uno di quei viaggi e ricordo che faceva davvero freddo. Ricordo la nebbia di quella notte. Così fitta e densa che la si poteva tagliare con il coltello. Non si vedeva nulla. Un muro bianco davanti alla macchina. Credo sia stata l'unica volta che ho avuto paura anche in macchina con mio padre, soprattutto perché lui la corsia di sorpasso non l'aveva mollata manco quella volta.
Guidava tranquillo come se fosse stata una bellissima giornata di sole, ma credo che in quel momento abbia percepito il mio disagio:
- Paura?
- Un po'...... (Mi stavo cagando sotto, ma dargliela del tutto vinta, no!)
- Sai una cosa? Un semplice trucco in casi di nebbia? Non distogliere mai gli occhi dalla riga bianca, o da quella centrale se a doppia carreggiata o da quelle laterali. Segui quella e non finirai mai fuori strada.
- Ah! Capito. (E ricordo che passai il resto del viaggio con gli occhi incollati su quella riga bianca)
Ma dato che un po' stronzetta lo ero già:
- Papà, ma se non ci fossero righe bianche?
- ..................... (Fulminata con lo sguardo)
Però la domanda era più che lecita, non sempre le strade hanno le righe.
Credo però che con quella frase non intendesse trasformarmi nel "Fangio delle autostrade" e che non si riferisse alla nebbia in per sé, piuttosto darmi una lezione, cercare di farmi percorrere strade di vita sicure, insomma, seguire la retta via per non cadere nel burrone.
Ma non sempre c'è una riga bianca ad indicarci la strada, spesso e volentieri le strade sono dissestate, piene di buche, asfaltate male, non indicate a dovere e la segnaletica a dir poco scadente. Quindi s'impara ad andare a cazzo, cercando in tutti i modi di non finire fuori strada o di non andare a sbattere contro il guardrail. Perché a volte può esserci un guardrail a contenerci, ma in altri casi, il burrone è a pochi istanti da noi. E alla fine, quella riga bianca può salvarci?
Non sempre si ha voglia di seguirla. A volte si decide di non guardarla, di far finta che non esista.
E succede che si permetta a quella nebbia così densa e fitta di avvolgere la tua anima, lasciando tutto il mondo e la luce fuori da noi stessi. E così solo un silenzio ovattato cade dentro, donandoci quella agognata e ricercata pace.
A volte si sceglie così, davvero a cazzo: gli occhi chiusi, buio e silenzio, in mezzo ad una strada avvolti dalla nebbia, immersi nella nebbia, e sì circondati da tante righe bianche, ma volutamente ignorate.
Anche in questo caso, caro papà, non sono (stata) in grado di seguire i tuoi consigli ed insegnamenti.
Fossi stato tu la mia riga bianca, ora il burrone non lo guarderei da basso...
martedì 15 dicembre 2015
mercoledì 18 novembre 2015
Sorriso da ebete
Parlare di felicità di questi tempi, dove tutti ammazzano tutti e la considerano unica scelta possibile per raggiungere il regno dei cieli, credo suoni alquanto stonato. Non voglio entrare nel merito della vicenda, tutto questo mi fa vomitare, ma son pratica: "Credi in quello che ti pare, ma non rompere il cazzo a nessuno!" Perciò scriverò di quella roba strana chiamata "felicità".
Tutti a rincorrere un sogno, a voler qualcosa da questa vita, a sperare in qualcosa di bello e tutti a voler essere felici. Esiste la felicità? Sì credo proprio di sì, l'ho sfiorata e a volte anche toccata e presa con entrambe le mani, poi sfuggita: io ero pronta (lo sono tuttora) il resto no, non ancora perlomeno. Ora sono ferma e sto aspettando che mi raggiunga. Forse ho corso troppo (non credo, visti i tempi...) o forse il "resto" va troppo piano...non so.... Credo che al "mio resto" faccia paura questa strana roba. Credo sia più facile rimanere a mollo nel brodo di sempre perché sa come bolle e che temperatura può raggiungere; sa come e quando abbassare la fiamma e regolarla in modo tale da non bruciarsi. E' il solito brodo, appunto. Un brodo non più buono ma certamente sicuro perché comunque in grado di soddisfare il fabbisogno quotidiano.
Perché, mi chiedo, fa così paura spegnare il gas sotto questo brodo? Perché spaventa così tanto accendere un altro fuoco sotto un'altra pentola? Perché non sai come può bollire? Io invece penso di sì! C'è consapevolezza che nella nuova pentola non ci sarà la solita minestra trita e ritrita, ma un succulento e prelibato intingolo!!!
Perché fa così paura essere felici? E' più facile assuefarsi al dolore che alla felicità? Può essere. Sai cosa provi nel dolore, sai come reagire ed andare avanti (rassegnazione bella e buona), sai cosa ti aspetta, mentre essere felici è una condizione talmente rara che terrorizza il solo pensiero di viverla.
Ho disfatto in trenta minuti vent'anni di vita costruita lentamente in nome di questa strana roba perché ho capito cosa vuol dire essere davvero felici. E sì mi sono spaventata anche io, e di brutto, ma cazzo quanto è stato bello prendersi uno spavento del genere! E' scoppiata la bolla in cui mi ero rintanata e ho permesso di far entrare aria fresca nei miei polmoni ormai rinsecchiti: ho ricominciato a respirare. Ho spento la fiamma sotto il mio brodo, ho preso la pentola ancora bollente a mani nude e in un momento di follia e coraggio l'ho svuotata nel lavandino.
La felicità esiste e fa paura, ma ci si può abituare, ed è un'abitudine, l'unica, credo, che non stancherà mai. Non ha controindicazioni, solo due piccoli nei: ti stampa sulla faccia un sorriso ebete e ti fa camminare senza toccar terra, ma credo proprio che si possa sopravvivere benissimo.
Io quel sorriso da ebete lo voglio!
La felicità esiste. Basta solo volerla davvero.
Tutti a rincorrere un sogno, a voler qualcosa da questa vita, a sperare in qualcosa di bello e tutti a voler essere felici. Esiste la felicità? Sì credo proprio di sì, l'ho sfiorata e a volte anche toccata e presa con entrambe le mani, poi sfuggita: io ero pronta (lo sono tuttora) il resto no, non ancora perlomeno. Ora sono ferma e sto aspettando che mi raggiunga. Forse ho corso troppo (non credo, visti i tempi...) o forse il "resto" va troppo piano...non so.... Credo che al "mio resto" faccia paura questa strana roba. Credo sia più facile rimanere a mollo nel brodo di sempre perché sa come bolle e che temperatura può raggiungere; sa come e quando abbassare la fiamma e regolarla in modo tale da non bruciarsi. E' il solito brodo, appunto. Un brodo non più buono ma certamente sicuro perché comunque in grado di soddisfare il fabbisogno quotidiano.
Perché, mi chiedo, fa così paura spegnare il gas sotto questo brodo? Perché spaventa così tanto accendere un altro fuoco sotto un'altra pentola? Perché non sai come può bollire? Io invece penso di sì! C'è consapevolezza che nella nuova pentola non ci sarà la solita minestra trita e ritrita, ma un succulento e prelibato intingolo!!!
Perché fa così paura essere felici? E' più facile assuefarsi al dolore che alla felicità? Può essere. Sai cosa provi nel dolore, sai come reagire ed andare avanti (rassegnazione bella e buona), sai cosa ti aspetta, mentre essere felici è una condizione talmente rara che terrorizza il solo pensiero di viverla.
Ho disfatto in trenta minuti vent'anni di vita costruita lentamente in nome di questa strana roba perché ho capito cosa vuol dire essere davvero felici. E sì mi sono spaventata anche io, e di brutto, ma cazzo quanto è stato bello prendersi uno spavento del genere! E' scoppiata la bolla in cui mi ero rintanata e ho permesso di far entrare aria fresca nei miei polmoni ormai rinsecchiti: ho ricominciato a respirare. Ho spento la fiamma sotto il mio brodo, ho preso la pentola ancora bollente a mani nude e in un momento di follia e coraggio l'ho svuotata nel lavandino.
La felicità esiste e fa paura, ma ci si può abituare, ed è un'abitudine, l'unica, credo, che non stancherà mai. Non ha controindicazioni, solo due piccoli nei: ti stampa sulla faccia un sorriso ebete e ti fa camminare senza toccar terra, ma credo proprio che si possa sopravvivere benissimo.
Io quel sorriso da ebete lo voglio!
La felicità esiste. Basta solo volerla davvero.
martedì 15 settembre 2015
Una volta di troppo..
"L'amico è qualcosa che più ce n'è meglio è.." (cantava così Dario Baldan Bembo, no?) Davvero? Bah.....
Credo che di parole sull'amicizia se ne siano spese tante, tantissime, decisamente troppe e spesso inutilmente; i social ne sono pieni: post e pagine intere intenti a sbandierare l'amicizia perfetta e il modo di tenerti stretto un amico. Tante frasi, belle, anche da riuscire a commuovere e strappare una sincera lacrimuccia, ma sono solo "luoghi comuni", le classiche "frasi fatte". E' un mio parere, naturalmente, anche se penso non solo mio.
Solo un post mi ha colpito veramente, non ricordo le parole esatte, ma il succo era questo:
" L'amico vero è quello che se lo chiami alle tre del mattino e gli dici che hai ucciso qualcuno, non ti fa domande, ma ti risponde 'aspetta che arrivo che ti aiuto a seppellirlo!' "
Forse un po' eccessivo e assurdo, ma in queste parole e in questo atteggiamento, il vero significato dell'AMICIZIA, e cioè: nel bene e nel male, dunque SEMPRE. E' molto raro, ahimè! Anzi, credo proprio che l'amicizia, quella vera, non esita affatto. Cinica? No! Ferita una volta di troppo.
Ora mi limito ad osservare. Non faccio più domande e non chiedo nemmeno più il perché di tanti atteggiamenti o parole dette. Mi son resa conto che solo osservando attentamente, ho tutte le risposte che voglio e sempre desiderato. Alla fine contano solo i fatti.
Cosa ho imparato in tutto questo tempo, in questa prima parte della mia vita? Che a volte è necessario lasciar andare benché ci sia ancora del bene, non chiedere spiegazioni, non farsi troppe seghe mentali, elucubrazioni inutili, ed invitare il suddetto amico (che poi tanto amico non è!) ad uscire dalla tua vita con sguardo basso e passi lunghi ben distesi, augurandogli in meglio che possa avere, ma senza di noi!
E non perché sia speciale, anzi credo proprio di essere un disastro di donna, ma io ero quella sotto casa tua, arrivata senza chiedere spiegazioni e senza giudicare, con la pala in mano che aveva già trovato il posto dove seppellire il cadavere e aveva già scavato!!! Ora però cercati un altro posto e scava per i fatti tuoi, perché la buca l'ho coperta!
Hola..
Credo che di parole sull'amicizia se ne siano spese tante, tantissime, decisamente troppe e spesso inutilmente; i social ne sono pieni: post e pagine intere intenti a sbandierare l'amicizia perfetta e il modo di tenerti stretto un amico. Tante frasi, belle, anche da riuscire a commuovere e strappare una sincera lacrimuccia, ma sono solo "luoghi comuni", le classiche "frasi fatte". E' un mio parere, naturalmente, anche se penso non solo mio.
Solo un post mi ha colpito veramente, non ricordo le parole esatte, ma il succo era questo:
" L'amico vero è quello che se lo chiami alle tre del mattino e gli dici che hai ucciso qualcuno, non ti fa domande, ma ti risponde 'aspetta che arrivo che ti aiuto a seppellirlo!' "
Forse un po' eccessivo e assurdo, ma in queste parole e in questo atteggiamento, il vero significato dell'AMICIZIA, e cioè: nel bene e nel male, dunque SEMPRE. E' molto raro, ahimè! Anzi, credo proprio che l'amicizia, quella vera, non esita affatto. Cinica? No! Ferita una volta di troppo.
Ora mi limito ad osservare. Non faccio più domande e non chiedo nemmeno più il perché di tanti atteggiamenti o parole dette. Mi son resa conto che solo osservando attentamente, ho tutte le risposte che voglio e sempre desiderato. Alla fine contano solo i fatti.
Cosa ho imparato in tutto questo tempo, in questa prima parte della mia vita? Che a volte è necessario lasciar andare benché ci sia ancora del bene, non chiedere spiegazioni, non farsi troppe seghe mentali, elucubrazioni inutili, ed invitare il suddetto amico (che poi tanto amico non è!) ad uscire dalla tua vita con sguardo basso e passi lunghi ben distesi, augurandogli in meglio che possa avere, ma senza di noi!
E non perché sia speciale, anzi credo proprio di essere un disastro di donna, ma io ero quella sotto casa tua, arrivata senza chiedere spiegazioni e senza giudicare, con la pala in mano che aveva già trovato il posto dove seppellire il cadavere e aveva già scavato!!! Ora però cercati un altro posto e scava per i fatti tuoi, perché la buca l'ho coperta!
Hola..
domenica 9 agosto 2015
Un libro. Amare.
Qualche tempo fa una mia cara amica mi ha imprestato un libro "leggilo, capirai e cambierai. Tu, come me, sei una di loro e non va bene. Il modo che hai, che abbiamo di amare è sbagliato."
Così prendo il libro, un po' scettica e un po' incuriosita "lo leggerò!" ma con noncuranza, ricordo di averlo poggiato sul comodino.
Una, due, tre, quattro sere e il libro continuava a rimanere intonso. Lo guardavo, però niente, non ne venivo attirata. I libri, solitamente, mi chiamano..
Dopo più di una settimana, complice un'incazzatura coi fiocchi e l'anima al rovescio, decido di prendere il libro e dar retta alla mia amica, con la ferma intenzione di leggere, capire e cambiare!
Mi siedo comoda, gli occhiali ben piantati sul naso, pronta a farmi psicanalizzare da quelle pagine.. (ci riusciranno?)
"Donne che amano troppo" di Robin Norwood.
All'inizio tutto normale, poi lo scontro inevitabile con una me stessa che non avrei mai voluto vedere così direttamente. In molti paragrafi sembrava di vedermi riflessa. Una fotocopia spiccicata di persone e situazioni, atteggiamenti e attimi di vita, ma ben consapevole, purtroppo, del mio modo di amare. Vedersi dal di fuori è diverso, credo faccia male in modo diverso. Sembrava di stare seduta su di una poltrona di un cinema a guardare correre pezzi di un film tragicomico! Che brivido...
Sono arrivata circa a metà del libro, non riesco ad andare oltre, perché ogni volta che provo a leggere ancora, mi si gonfiano gli occhi e cominciano a rigurgitare lacrime a non finire. Perché? Benché scavi dentro e scenda molto in profondità, decisamente troppo, credo che, sbagliato o meno, il mio modo di amare rimarrà sempre quello e oltremodo consapevole della cosa, non riesco e forse non voglio cambiare.
Perché poi proprio il mio modo deve essere sbagliato? Perché amare troppo è sbagliato?
Perché dò tutto e tutta me stessa in cambio di briciole, quando meriterei una pagnotta intera?
Non lo so! Non ho risposte e non so dove mi porterà questo "amare troppo", però so che potrò dire a distanza di anni "ho fatto, lottato, dato e amato completamente, senza lasciar nulla d'intentato e non ho rimpianti!"
Mera consolazione? Non credo. E' credere nell'Amore, quello scritto in grande, vissuto in grande.
E' credere che l'Amore sia l'unica vera forza che faccia girare l'intero universo.
Psicoanalisi fallita!
Così prendo il libro, un po' scettica e un po' incuriosita "lo leggerò!" ma con noncuranza, ricordo di averlo poggiato sul comodino.
Una, due, tre, quattro sere e il libro continuava a rimanere intonso. Lo guardavo, però niente, non ne venivo attirata. I libri, solitamente, mi chiamano..
Dopo più di una settimana, complice un'incazzatura coi fiocchi e l'anima al rovescio, decido di prendere il libro e dar retta alla mia amica, con la ferma intenzione di leggere, capire e cambiare!
Mi siedo comoda, gli occhiali ben piantati sul naso, pronta a farmi psicanalizzare da quelle pagine.. (ci riusciranno?)
"Donne che amano troppo" di Robin Norwood.
All'inizio tutto normale, poi lo scontro inevitabile con una me stessa che non avrei mai voluto vedere così direttamente. In molti paragrafi sembrava di vedermi riflessa. Una fotocopia spiccicata di persone e situazioni, atteggiamenti e attimi di vita, ma ben consapevole, purtroppo, del mio modo di amare. Vedersi dal di fuori è diverso, credo faccia male in modo diverso. Sembrava di stare seduta su di una poltrona di un cinema a guardare correre pezzi di un film tragicomico! Che brivido...
Sono arrivata circa a metà del libro, non riesco ad andare oltre, perché ogni volta che provo a leggere ancora, mi si gonfiano gli occhi e cominciano a rigurgitare lacrime a non finire. Perché? Benché scavi dentro e scenda molto in profondità, decisamente troppo, credo che, sbagliato o meno, il mio modo di amare rimarrà sempre quello e oltremodo consapevole della cosa, non riesco e forse non voglio cambiare.
Perché poi proprio il mio modo deve essere sbagliato? Perché amare troppo è sbagliato?
Perché dò tutto e tutta me stessa in cambio di briciole, quando meriterei una pagnotta intera?
Non lo so! Non ho risposte e non so dove mi porterà questo "amare troppo", però so che potrò dire a distanza di anni "ho fatto, lottato, dato e amato completamente, senza lasciar nulla d'intentato e non ho rimpianti!"
Mera consolazione? Non credo. E' credere nell'Amore, quello scritto in grande, vissuto in grande.
E' credere che l'Amore sia l'unica vera forza che faccia girare l'intero universo.
Psicoanalisi fallita!
venerdì 7 agosto 2015
Vale anche per le persone?
La pianta in questione è un banalissimo cactus. Una palla vegetale, tonda, a volte ovale, altre dalla forma allungata (lo so perché sul mio balcone ho vasi che ne contengono di tutte le forme e dimensioni) ricoperta di spine e dall'aspetto a dir poco insignificante. E' una pianta che davvero non sa di nulla. Verde e spinosa. Non profuma e necessita di poca acqua. La guardi e non dà soddisfazioni. Poi un giorno vedo spuntare un foruncolo pelosetto e penso "sarà l'adolescenza" e girandomi sui tacchi me ne sono andata, sorridendo fra me e me per la battuta di poco spirito che ho tirato fuori.
Nei giorni successivi, il foruncolo è aumentato di dimensioni, tanto da sembrare una trombetta.
Stava diventando interessante.
Una mattina presto, svegliata dal caldo, sono andata sul balcone a cercare un po' di fresco, ed eccola lì, nella luce flebile dell'alba, quella pianta tanto insulsa, ha partorito un fiore così bello da lasciarmi senza fiato. Un profumo dolcissimo, quasi nauseabondo, colori delicatissimi, da sembrar di seta e quei pistilli al centro, parevano ciglia contornanti un occhio profondo. E quell'occhio guardandomi dolcemente sussurrava "mi vedi ora come sono realmente?"
E così i pensieri hanno cominciato un inevitabile percorso: vale anche per le persone? dentro ognuno di noi, dietro ad una corazza di aculei c'è un fiore tanto profumato, tanto dolce e delicato da lasciar senza fiato? Ed è possibile che da qualcosa di brutto possa nascere qualcosa di davvero meraviglioso? E perché se davvero esiste questa meraviglia dentro le persone, perché nasconderla?
E' così bello mostrarsi per quel che si è, senza dover alzare barriere per difendersi.
Questa palla vegetale, ora è diventata la regina di tutte le piante che ho sul terrazzo, continua a sfornare "bambini" che accuratamente stacco e ripianto in altri vasi, in attesa che ogni anno compia e non solo lei, un altro splendido miracolo.
lunedì 27 luglio 2015
Un pezzo di strada
Un pezzo di corso, un pezzo della mia Torino: Vittorio Emanuele II. Un pezzo di strada trafficato, nel centro della città che porta alla stazione di Porta Nuova. Un pezzo come tanti, per tanti. Per me, no! Un pezzo di viale particolare, direi quasi perfetto. Unico.
È stato difficile fare queste foto, appunto perché è un corso "vissuto", e ci ho provato per mesi, poi finalmente ci sono riuscita, complice la stagione, estate, che ha svuotato la città e l'ora, erano circa la sette e trenta della mattina, l'hanno reso possibile, anche se queste foto non riescono ad immortalare del tutto ciò che i miei occhi catturano quando passo di qua. E tutte le settimane, per motivi di lavoro, per me è come passare per la prima volta e le sensazioni son sempre belle, più belle.
È come entrare a Narnia! In un altro mondo e mi perdo. Per una manciata di secondi, perché dal semaforo al monumento, in macchina, ci va meno di mezzo minuto, io mi perdo. E osservo laggiù il punto di fuga e mi sembra lontanissimo, inarrivabile.
E gli alberi... Secolari. Incredibilmente belli, maestosi con quei rami che toccano il cielo e chiudono il corso dal sole, creando un'ombra perfetta e silenziosa. E le foglie si toccano. Sì, questi alberi separati dalla strada, riescono a toccarsi nel cielo. Come succede alle loro radici sotto terra.
Sono uniti e lo sono da una vita lunghissima. Sono lì da decenni e decenni.
Sembrano amanti lontani che non possono stare vicini fisicamente, ma le loro menti, i loro pensieri, le loro anime si mischiano nell'aria e nelle viscere di una vita crudele e si amano in un modo unico e assoluto.
Una fantasia perfetta.
Un corso perfetto.
Una Narnia in una città perfetta.
La mia.
martedì 13 gennaio 2015
Tic tac tic tac [Tac tic tac tic...]
Qualche tempo fa, in l'occasione del compleanno di mio padre, sono andata a pranzo in un ristorante in Strada Valsalice, qui a Torino, dove, tra l'altro, si mangia egregiamente bene. E oltre, ma soprattutto, ad essere stata attirata dai piatti serviti, deliziosi, il mio sguardo si è fermato su una colonna al centro della sala. Su di essa e su ogni suo lato, un orologio. Dapprima li ho guardati con disinteresse, ma inconsciamente qualcosa mi ha lasciata perplessa e così, per placare la mia infinita curiosità, mi sono alzata dalla sedia e mi sono piazzata davanti a quella colonna a fissare uno dei quattro orologi. C'era davvero qualcosa che non andava: girava in senso antiorario. Andava indietro!
Qualche tempo fa, in l'occasione del compleanno di mio padre, sono andata a pranzo in un ristorante in Strada Valsalice, qui a Torino, dove, tra l'altro, si mangia egregiamente bene. E oltre, ma soprattutto, ad essere stata attirata dai piatti serviti, deliziosi, il mio sguardo si è fermato su una colonna al centro della sala. Su di essa e su ogni suo lato, un orologio. Dapprima li ho guardati con disinteresse, ma inconsciamente qualcosa mi ha lasciata perplessa e così, per placare la mia infinita curiosità, mi sono alzata dalla sedia e mi sono piazzata davanti a quella colonna a fissare uno dei quattro orologi. C'era davvero qualcosa che non andava: girava in senso antiorario. Andava indietro!
"No! Non è possibile!" È stato il mio primo pensiero, seguito da un altro per me ancor più interessante "e se fosse davvero possibile? Se esistesse anche solo la più remota delle possibilità di mandare per una sola volta nella vita il nostro orologio personale e avere l'occasione di cambiare qualcosa? Accidenti! Chi non lo vorrebbe!"
E così invece del classico "tic tac tic tac", soffocando il brusio della sala, tanto da stordirmi e incantarmi, dentro la mia testa ho cominciato a sentire :
"TAC TIC TAC TIC TAC TIC..."
E sì, una cosa l'avrei cambiata: in quel preciso istante sarei tornata indietro di venticinque anni (nel lontano 1990) e avrei lottato disperatamente per non perdere quello che poi si è rivelato (dopo venti lunghissimi anni) l'amore della mia vita.
Ma si sa quando si è ragazzi l'amore non è poi così importante o perlomeno non gli si dà il giusto peso.
Ora invece è un macigno che schiaccia il cuore.
TAC TIC TAC TIC TAC TAC TAC TAC TAC TAC...
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