martedì 18 ottobre 2016

...e ha lasciato..

...e ha lasciato che si avvicinasse, sperando che potesse colmare quella distanza che stava facendo a pezzi quel poco che rimaneva del suo raziocinio.
E ha lasciato che le sue braccia l'accogliessero, sperando fossero calde, in grado di intiepidire la sua anima ormai di ghiaccio.
E ha sperato che il suo abbraccio fosse abbastanza forte da non farla scappare lontano.
Che fosse abbastanza dolce da tenerla.
Che fosse abbastanza passionale da scatenarle il desiderio ormai assopito.
Che fosse abbastanza.
E ha lasciato che le sue mani vogliose scorressero sul suo corpo tremante.
E ha lasciato che le sue labbra si avvicinassero alle sue, sperando che il loro sapore fosse abbastanza per ricredere nell'amore.
E ha lasciato che i loro sapori si mischiassero.
E ha provato a lasciare andare.
Si è abbandonata a qualcosa che non voleva, ma lo doveva fare, perché il dolore che sentiva serpeggiare dentro era troppo da sopportare, cercando così una scappatoia, a tutti i costi, per stare un po' meglio.
Ma quel sapore, quegli odori, per nulla famigliari hanno scavato dentro ancor di più.
Facevano male ancor di più.
Non erano i suoi.
Male.
Troppo.
Nausea.
Voglia di vomitare.
La testa piena di ricordi e immagini tutte buttate per aria.
Confusione.
Niente calore.
Niente desiderio.
Niente amore.
Nessun trasporto.
Nessun abbandono.
Niente. Di. Niente.
Solo fermare le sue mani già pronte per andare oltre.
Solo allontanarsi il più velocemente possibile.
Solo scappare via.
Scappare via da tutto.
La paura, la sola cosa rimasta; la paura di non riuscire più a vivere.
Un'unica certezza, ancora una volta, la sola ed unica certezza che la stava consumando lentamente: un amore assurdo, infinito, disperatamente troppo forte per quella persona da cui tentava di fuggire, senza riuscirci, da tutta una vita.
Dentro.
Lì per sempre. 
E lo sapeva: non se ne sarebbe mai liberata.


venerdì 29 luglio 2016

Michele.

Non sono solita parlare di malattie perché ritengo l'argomento molto delicato e personale, ma questa volta lo devo fare, più per me stessa che per altro.

Per ringraziarti, Michele.

Lavoro in uno studio medico e una delle regole fondamentali è cercare, il più possibile, di non affezionarsi ai pazienti, mantenere un certo distacco, non farsi coinvolgere dalle loro vite. A volte però è impossibile.
Poco più di tredici mesi fa sei venuto in studio con una tosse fastidiosa.
Tredici mesi dopo un cancro ai polmoni ti ha portato via.
Troppo giovane. Troppo buono.
Un cancro ha portato via i tuoi grandi e dolcissimi occhi marroni; il tuo sorriso, quasi sempre nascosto dai baffi; la tua voce forte e le tue spalle possenti. Un "omone". Perché tu eri così: grande, alto e forte, ma di una bontà senza senso, che traspirava da ogni parte di te.
Ho sperato e pregato che questo male di merda ti risparmiasse, perché le persone come te sono (non erano!) rare, ma niente da fare: nessuna pietà.
Te ne sei andato. E l'hai fatto da incazzato.
Lo sapevi che quelle sarebbero state le tue ultime ore e ti sei ribellato rifiutando cure, cibo e acqua.
Incazzato davvero, forse per la prima volta in vita tua.
Il vuoto che hai lasciato è grande.
Il dolore, idem.

Buon viaggio Michele, ovunque tu sia diretto e grazie.
Grazie di aver fatto parte della mia vita.

Ti voglio bene.

sabato 27 febbraio 2016

Freedom

Urla nella notte. Mi alzo di colpo, spaventata. Corro nella camera dei miei figli per capire se quelle grida provengono da lì.
Tutto silenzio. Tutto tranquillo. Loro ancora fra le dolci e calde braccia di Morfeo.
Alla finestra: guardo fuori. Niente.
Sul balcone. Niente ancora. La notte canta solo il suo buio silenzio.
"Sogno? Incubo? Boh... Eppure quelle grida le ho sentite! Ma sì, torniamo a letto, son solo le tre e qualche minuto".
Chiudo gli occhi. Ci riprovo, la notte è ancora lunga.
Li riapro ancor più spaventata di prima e mi scontro contro il buio della mia camera e la consapevolezza che quelle grida provenivano da me.
Non è stato un sogno, nemmeno un incubo, ma semplicemente la mia anima che si ribellava alle catene strettele intorno. Urla da dentro, così strazianti e così acute da svegliarmi.
Strillava perché messa a tacere. Da chi ho intorno. Da chi non accetta e non ascolta quel che ha da raccontare. E di conseguenza anche da me.
Costretta al silenzio da chi la vuole diversa da quello che realmente è.
Costretta a qualcosa di non voluto.
Costretta.
Forse perché diversa, non convenzionale. Non speciale, solo diversa.
Forse perché canta la semplicità.
Forse perché è capace di perdersi nel guardare un sole che sorge e si bea dei colori del cielo.
Forse perché vede amore ovunque e ne viene risucchiata.
Forse perché crede che l'amore sia l'unica cosa al mondo così potente da vincere su tutto.
Forse crede troppo.
Forse ha sbagliato. (?) (!)
A forza di essere messa a tacere ha cominciato a credere veramente che fosse lei quella sbagliata e ad ogni botta subita si è fatta sempre più piccina, fino a chiudersi su se stessa rimanendo avvolta solo da silenzi, ombre e finzioni. L'unica cosa che è in grado di fare ora è gridare nella notte per cercare di ribellarsi ad una condizione non voluta.
Le catene, quelle che non si vedono, sono le peggiori: stringono e soffocano. Sono quelle che ledono la libertà interiore. La libertà del nostro essere.

Io sono questo. Io sono il tatuaggio che ho sulla nuca:






Chiudere un'anima, chiuderla in una gabbia, impedendole di esprimersi liberamente, avrà sì dapprima l'effetto desiderato: il silenzio, ma poi la sua natura prevarrà, prenderà il sopravvento su tutto e tutti e sarà in grado di spiccare nuovamente il volo e stavolta nessun la potrà fermare.
Nessuno più tarperà le sue ali. E volerà via. Via, il più lontano possibile da chi non è mai riuscito ad amarla per quello che realmente è. E andrà via. Senza guardarsi indietro non tornerà più, lasciando gli altri ad ammirare e un po' anche invidiare la sua rinascita ed il suo volo eterno.

NESSUNO PUÒ' METTERE UN'ANIMA IN GABBIA. E' COME INGABBIARE LA LIBERTÀ'.